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Il CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI , con sentenza 28 dicembre 2015 n. 5841, nel confermare l’orientamento che riconosce al Giudice Amministrativo, a fronte di una occupazione illegittima, la possibilità a fronte di una occupazione illegittima di condannare l’amministrazione a scegliere tra l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante o la restituzione del bene, ripercorre i passaggi fondamentali della recente giurisprudenza che hanno portato al superamento definitivo della cosi detta “occupazione acquisitiva” .In particolare, nella sentenza richiamata il C.d.S. afferma quanto segue:“…, vale brevemente ripercorrere i passaggi fondamentali della recente evoluzione pubblicistica della fattispecie dell’espropriazione indiretta, seppur nei limiti che rilevano ai fini della risoluzione della presente controversia. L’occupazione acquisitiva si caratterizzata per l’esistenza dell’irreversibile trasformazione della cosa accompagnato da una anomalia del procedimento espropriativo a causa della sua mancata conclusione con un formale provvedimento ablativo.La sentenza della Corte di Cassazione, SS.UU., 26 febbraio 1983, n. 1464, aveva affermato che l’acquisto della proprietà conseguiva ad un’inversione della fattispecie civilistica dell’accessione di cui agli artt. 935 ss. Cod. civ., in considerazione della avvenuta trasformazione irreversibile del fondo: la destinazione irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato comportava l’acquisto a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della proprietà del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del privato.La successiva Cass. SS.UU., 10 giugno 1988, n. 3940, ha poi chiarito che la «occupazione acquisitiva» ricorre nel solo caso in cui si riscontri una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetta di far prevalere l’interesse pubblico su quello privato (in questo senso anche Corte cost., 30 aprile 2015, n. 75). A fronte delle criticità di questa configurazione in rapporto al principio di legalità, posto che consentiva l’acquisizione al patrimonio pubblico di un bene in assenza di una base legale che l’autorizzasse, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha confutato la fattispecie, poiché lesiva del principio di legalità stabilito dall’art. 1 del Primo protocollo addizionale alla CEDU: questo, sotto la rubrica «Protezione della proprietà», dispone, tra l’altro,che «nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale» (tra le altre, sentenza 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. contro Italia).È così sopravvenuto l’art. 43 (Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico) del d.P.R. n. 327 del 2001. La Corte costituzionale, con la sentenza 8 ottobre 2010, n. 293, ha dichiarato illegittima tale disposizione per violazione dell’art. 76 Cost. In particolare, ha rilevato che l’intervento della pubblica amministrazione sulle procedure ablatorie, disciplinato dalla norma, eccedeva gli istituti della occupazione appropriativa ed usurpativa come delineati dalla giurisprudenza di legittimità, prevedendo un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che aveva commesso l’illecito.Infine l’art. 42-bis (anch’esso rubricato: Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico) nel T.U. sulle espropriazioni, introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, ha previsto: «valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene». Per quanto rileva in questa sede, l’art. 42-bis, comma 8, dispone che le norme in esso contenute «trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore» (comma 8).Inoltre, circa le modalità di adozione dell’atto di acquisizione, la disposizione non ha previsto un termine per adottare un tale atto. La giurisprudenza ha, pertanto, ritenuto che il giudice amministrativo possa condannare l’amministrazione a scegliere, entro un termine fissato, tra l’adozione del provvedimento di acquisizione o la restituzione del bene (Cons. Stato, IV, ordinanza 29 agosto 2013, n. 4318; nello stesso senso la sentenza 26 marzo 2013, n. 1710; Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71, ha ritenuto infondati i dubbi di costituzionalità per mancanza di un termine richiamando questo orientamento della giurisprudenza amministrativa che consente al privato di ottenere comunque una decisione da parte della p.a. entro un termine giudizialmente stabilito)...”
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